Meccanismi biologici, emotivi e relazionali
 

AUTRICI

Alessandra Vanni                                     Giovanna Vanni

 

«[…] Ora, mi domando, come è possibile che qualcuno veda chiaro quando non vede se stesso, nè quelle ombre che egli stesso proietta in ogni sua azione? Come è possibile che così facendo, rinunciando alla riflessione, ci si senta al sicuro, certi di una vita senza intoppi o avversità? […]…così facendo non siamo altro che vittime di tutte le illusioni che noi stessi ci creiamo e, in primo luogo, della negazione circa il significato della nostra stessa esistenza come opera unica ed irripetibile. […] Occuparsi della propria natura e meditarci su è dunque un’attività non solo pienamente legittima, ma indiscutibilmente necessaria, se si aspira ad un effettivo cambiamento e a un miglioramento della propria situazione. La presa di coscienza è cultura nel senso più ampio della parola, e la conoscenza di sé è l’essenza ed il nocciolo di questo processo. La scoperta di noi stessi ci restituisce a ciò che siamo, a ciò che era nostro compito diventare, allo scopo della nostra vita…»
Carl Gustav Jung

Siamo due sorelle da sempre unite da un legame forte. Proveniamo da una famiglia di medici: medico nostro nonno materno, nostro padre e nostro fratello. Abbiamo abitato fino alla prima età adulta in una casa molto spaziosa con le nonne, la zia, la tata ed i cani. Gli amici suonavano a tutte le ore, ma oltre a loro anche i pazienti di nostro padre, ortopedico, che aveva lo studio adiacente all’entrata principale. Lui, Emilio, aveva dedicato la sua vita a curare le ossa, avendo egli stesso subito un trauma che non gli permetteva di piegare una gamba, cosa che gli conferiva un’andatura particolare, soprattutto per un ortopedico.
La nostra famiglia aveva degli strani orari. La tata si alzava per prima (non sempre, a volte la zia doveva controllare se la pasta per le torte lievitava bene...), alle 6.00 circa, poi il papà alle 6.45 poi la mamma Deda e noi. Ma la sera, di sovente, noi fratelli tiravamo tardi per parlare con la mamma..., talvolta di nascosto dal papà, che diceva che dovevamo dormire «le ore del giusto», almeno sette. C’era quasi sempre qualcuno sveglio. E qualche luce accesa. Le chiacchierate nascevano spontanee di sera, ma a volte anche di giorno, durante il pranzo. Partecipava chi si trovava lì, molto spesso i nostri amici. Si formavano dei gruppetti.
Lì nacque la nostra passione piano, piano. Nostro padre ci raccontava della sua giornata professionale, delle persone incontrate e delle relazioni umane, con lo sguardo acceso dall’emozione per un intervento al ginocchio con protesi all’avanguardia, studiate a New York, ma anche con il timore che qualcosa non andasse per il verso giusto. Spesso nostra madre, mentre lo ascoltava e consigliava, lo teneva per mano. C’è stato il periodo delle discussioni filosofiche ma si finiva col parlare di tutto, anche di banalità, di vita quotidiana.
L’attitudine alla comunicazione intensa è rimasta anche crescendo, e così pure il legame fra noi sorelle. Papà e mamma non ci sono più e neppure la casa. Abbiamo formato le nostre famiglie, ora dialoghiamo con i nostri figli riproducendo lo stile comunicativo appreso tanti anni fa.
Il ricordo del calore dell’ambiente familiare in cui siamo cresciute si è trasformato nella passione per la vita psichica, la quale ha spinto ciascuna di noi due ad intraprendere la propria professione: scelte diverse ma vicine, una psichiatra, l’altra psicologa, entrambe unite dallo stesso credo per la tipologia di specializzazione clinica.
Ogni Venerdì pranziamo insieme e parliamo fitto fitto di situazioni di ogni genere, oggi come allora. Spesso ci fermiamo a riflettere sui cambiamenti degli scenari clinici, o sulle tendenze sociali nelle varie generazioni e i quesiti che da questi ambiti ci arrivano hanno una matrice comune. Pazienti, studenti, famiglie si e ci interrogano: anche i familiari, amici, insegnanti possono essere coinvolti nella genesi, nel mantenimento e nella terapia dell’ansia? Le relazioni divengono ansiose perché la biologia ci rende schiavi? Esiste una soluzione per affrontare l’ansia «normalmente» presente nelle relazioni, e quale cura per la patologia?
È così che nel tempo è nata l’idea di questo libro con la sua particolare struttura. Le parole di Jung che abbiamo riportato nella citazione iniziale bene interpretano quale vuole essere lo spirito di questo libro: aiutare ciascun lettore a riflettere sulla propria ansia, imparando a conoscerla. Fortunatamente la scienza ci è amica. Gli ultimi venti anni di scoperte nell’ambito delle neuroscienze fanno sì che ciò che è psicologico diventi ora più comprensibile, diradando l’alone di mistero che ha avvolto la psiche fin dai tempi antichi. Le relazioni interpersonali cominciano a far parte del patrimonio scientifico: l’ansia può essere letta come fenomeno complesso che le comprende e che in esse si costruisce.
Abbiamo cercato, mantenendo accese le specificità che ci distinguono, ma anche ci uniscono, di rendere conto della situazione attuale della ricerca in merito a questo argomento.

Il concetto di ansia negli ultimi anni è inflazionato, a volte banalizzato, altre rifuggito quasi fosse portatore di catastrofi. Il nostro intento è quello di affrontare gli argomenti in modo integrato ma non confusivo, cercando di non falsare con erronee semplificazioni ciò che semplice non è. Speriamo in questo modo di aiutare ciascun lettore ad «aumentare il numero delle proprie scelte», come direbbe H. von Foerster, uno dei più grandi maestri della complessità. L’ansia può, cioè, essere affrontata scegliendo di riflettere su noi stessi e sul mondo relazionale che ci circonda, in modo non schematico e uguale per tutti.